Interventi
13 August 2020

Stop ai veti degli enti locali ora la regia torni allo Stato

Un ruolo forte dello Stato centrale, procedure molto più snelle e fine del potere di veto per le amministrazioni locali. Per Claudio De Vincenti sono queste le condizioni necessarie per spendere bene le risorse europee che affluiranno al Mezzogiorno con il Recovery Fund. Già ministro della Coesione territoriale nel governo Gentiloni, l’economista è oggi presidente

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Un ruolo forte dello Stato centrale, procedure molto più snelle e fine del potere di veto per le amministrazioni locali. Per Claudio De Vincenti sono queste le condizioni necessarie per spendere bene le risorse europee che affluiranno al Mezzogiorno con il Recovery Fund. Già ministro della Coesione territoriale nel governo Gentiloni, l’economista è oggi presidente onorario dell’associazione Merita (Meridione-Italia).
Professore, potrebbero prendere la via del Sud almeno una settantina di miliardi tra sovvenzioni e prestiti. Il Paese sarà in grado di sfruttare l’occasione?
«Il Mezzogiorno ha assoluto bisogno che l’Italia non si comporti da cicala. Ha bisogno che il governo e le amministrazioni regionali e locali diano una prova di serietà. Ne va del futuro del Mezzogiorno. Abbiamo la possibilità di avviare la riduzione del divario tra Nord e Sud, ma riusciremo solo facendo un uso non assistenzialistico delle risorse. Vanno impiegate per fare investimenti pubblici e sostenere quelli privati, in modo da ricostruire le basi della crescita e della produttività».
C’è il rischio che questo non avvenga?
«Ho sentito dichiarazioni di politici che chiedono di usare i fondi europei per ridurre le tasse. Ora ridurre le tasse è cosa buona ma la riduzione va finanziata con risorse nazionali. Allo stesso modo sarebbe sbagliato utilizzare quei soldi per la spesa corrente: sovvenzioni e prestiti dall’Europa si devono focalizzare sulla crescita dei prossimi anni, se li dirottiamo a coprire tagli di tasse e incrementi di spesa corrente ci ritroveremo alla fine con un disavanzo ingestibile».
Che tipo di investimenti servono?
«Investimenti pubblici e privati in infrastrutture, compresa la banda ultralarga e le reti energetiche. E poi in capitale sociale, quindi nella scuola: edilizia scolastica, strumentazioni digitali. Ma gli stipendi degli insegnanti vanno pagati dentro il bilancio nazionale».
Se si guarda all’utilizzo del “normali” fondi strutturali, il nostro Paese non ha un passato brillante. Quali lezioni possiamo trarre ora da quel passato?
«Essenzialmente tre. Le procedure previste dalla normativa attuale sono basate sulla cultura del sospetto, invece che su quella della fiducia. C’è un intreccio normativo che ha moltiplicato i passaggi burocratici e i controlli nell’illusione che questo possa servire contro la corruzione e per la tutela dell’ambiente. Al contrario, più sono complesse le procedure più c’è possibilità di annidarsi per chi persegue interessi illeciti o violenta la natura. Basta guardare a quel che succede in altri paesi europei che ugualmente hanno a cuore legalità e ambiente ma hanno meccanismi molto più semplici».
La seconda lezione?
«Uscire dalla cultura del no e dei veti. Le procedure che si seguono nelle conferenze dei servizi danno troppi poteri di interdizione alle varie amministrazioni, che dovrebbero avere come obiettivo il fare non il bloccare. La mia proposta è di concentrare nella fase dello studio di fattibilità tutte le possibili obiezioni che si possono fare, poi basta, si passa a lavorare. Ma c’è anche una terza lezione che può essere attuata anche prima di modificare le procedure. Tra il 2014 e il 2015 è stata recuperata capacità di spesa dei fondi strutturali grazie alle task force dedicate tra Agenzia per la Coesione e amministrazioni territoriali. Un recupero che per il 2015 ha permesso di invertire positivamente la tendenza degli investimenti pubblici. E nella stessa direzione andavano i Patti per il Sud che purtroppo sono stati poi abbandonati a loro stessi. Insomma serve che lo Stato recuperi un ruolo forte, di regia. È stato un errore storico lasciar fare alle Regioni per conto proprio. Questo non vuol dire che serva creare l’ennesima struttura a Palazzo Chigi. La presidenza del Consiglio deve avere un ruolo di coordinamento nei confronti degli enti territoriali ma anche dei ministeri, usando come braccio operativo una struttura specializzata quale è l’Agenzia per la Coesione».
Intanto il governo conta di ottenere da Bruxelles il via libera alla fiscalità di vantaggio, finora osteggiata dalla Commissione.
Sulla fiscalità di vantaggio avevamo lavorato già nella scorsa legislatura con il credito di imposta sugli investimenti (che si aggiungeva alle agevolazioni di Industria 4.0) e con la decontribuzione al 100 per cento per i nuovi assunti. Ora il taglio del 30 per cento per tutti i lavoratori è una novità positiva: siccome oggi la produttività al Mezzogiorno è più bassa rispetto al Nord, per una serie di ragioni a partire dalla carenza infrastrutturale, la decontribuzione aiuta temporaneamente ad allineare il costo del lavoro. Ma deve essere accompagnata da un vantaggio fiscale per gli investimenti, come appunto il credito d’imposta e industria 4.0 perché l’obiettivo finale deve essere una produttività allo stesso livello di quella settentrionale».
Intervista a Il Messaggero/Il Mattino del 13 agosto 2020
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