Interventi
25 January 2022

Quando per non fare danni significativi si fanno guai maggiori

Claudio De Vincenti Il successo del Green Deal passa anche per un chiarimento del principio “non arrecare danno significativo”. Per una sorta di eterogenesi dei fini, l’interpretazione del principio adottata nei documenti europei fino all’autunno scorso rischia infatti di produrre effetti paradossali di freno alla transizione verde. Effetti ai quali ha cercato di porre rimedio,

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Claudio De Vincenti

Il successo del Green Deal passa anche per un chiarimento del principio “non arrecare danno significativo”. Per una sorta di eterogenesi dei fini, l’interpretazione del principio adottata nei documenti europei fino all’autunno scorso rischia infatti di produrre effetti paradossali di freno alla transizione verde. Effetti ai quali ha cercato di porre rimedio, in misura peraltro insufficiente, la bozza del 31 dicembre con cui la Commissione ha proposto di inserire la generazione elettrica a gas e quella nucleare all’interno della tassonomia degli investimenti green.

Il principio “do no significant harm” (DNSH), introdotto con il Regolamento 2020/852 sulla Tassonomia, costituisce di per sé una innovazione positiva che assicura la coerenza interna della strategia europea, evitando che i progressi nel perseguimento di un obiettivo ambientale vengano realizzati a spese di altri obiettivi ambientali. Ma il modo molto particolare con cui è stato declinato nei successivi Atti applicativi del Regolamento (in particolare COM 2021/1054) ha prodotto un “collo di bottiglia” che può frenare progetti di grande valenza proprio per la transizione verde.

Sono due le prescrizioni che contribuiscono a determinare questa impasse. La prima dispone che ai fini della valutazione DNSH l’impatto di una determinata misura vada considerato “in termini assoluti”, ossia “rispetto a una situazione senza alcun impatto ambientale negativo”, non rispetto “all’impatto di un’altra attività esistente o prevista che la misura potrebbe sostituire”. Poiché per esempio il gas in termini assoluti produce emissioni di CO2, per quanto molto inferiori a quelle del petrolio e del carbone, il suo utilizzo in sostituzione di questi ultimi nella generazione elettrica, nel sistema dei trasporti, nelle attività manifatturiere non può che violare il criterio così definito.

La seconda prescrizione impone “una valutazione DNSH specifica per ciascuna misura” dei PNRR, cosicché “la valutazione DNSH non dovrà essere effettuata a livello del Piano o delle singole componenti del Piano, bensì a livello di misura”. In questo modo, il singolo investimento viene analizzato espungendolo dal contesto entro il quale dovrebbe rivelare la propria maggiore o minore valenza nel percorso di riduzione delle emissioni e/o delle fonti di inquinamento. 

I paradossi che da questa impostazione derivano non riguardano solo l’esclusione dalla tassonomia dell’impiego di gas in sostituzione di carbone e petrolio – essenziale per centrare l’obiettivo del 55% di riduzione delle emissioni al 2030 – ma anche il freno all’introduzione e alla diffusione di tecnologie “più pulite” in una serie di altri settori. L’esempio più eclatante è quello dei termovalorizzatori, che per quanto aiuterebbero a evitare “il conferimento in discarica”, non sarebbero conformi al principio DNSH perché comportano “un aumento dell’incenerimento di rifiuti”.  Col risultato di avallare nei fatti la scelta compiuta da alcune autorità di governo locali – per esempio in una parte del nostro Paese – di affidarsi alle discariche e all’esportazione di rifiuti con buona pace dei principi europei della prossimità nel trattamento dei rifiuti e del superamento del conferimento in discarica.

Per il bene della transizione verde è quindi necessario e urgente correggere questa impostazione per costruire un quadro generale di applicazione del principio (DNSH) in grado di sorreggere, non di ostacolare, il complesso delle grandi scelte strategiche di cui il Green Deal ha bisogno. I passaggi chiave – che una ricerca della Fondazione Astrid sta mettendo a punto – sono due.

Il primo consiste nell’adottare un criterio di valutazione dell’impatto ambientale di tipo comparativo, non assoluto: ciò che conta per accelerare l’abbattimento delle emissioni o dell’inquinamento è il beneficio ambientale netto di un investimento. Un progetto quindi deve essere valutato non rispetto a un ipotetico stato di natura, ma comparativamente alle attività che con quell’investimento si vanno concretamente a sostituire e che sono già in essere o sarebbero in futuro realizzate se non si facesse l’investimento in questione.

Il secondo passaggio consiste nel fatto che quella valutazione in termini comparativi va effettuata considerando l’investimento nel quadro della strategia di transizione verde che lo Stato membro è tenuto ad adottare, quindi con riferimento al ruolo che gioca entro il percorso di incremento della quota di energia prodotta da fonti rinnovabili, di avanzamento sul fronte dell’efficienza energetica, di riduzione delle fonti inquinanti, di tutela delle risorse naturali e della biodiversità. Costruire una economia che abbia nella tutela dell’ambiente la propria stella polare richiede di guardare con mente aperta alle vie per raggiungere l’obiettivo di fondo di una società che realizzi finalmente un ricambio organico equilibrato tra uomo e natura.

Articolo su il Sole 24 Ore del 25 gennaio 2022

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