Interventi
18 November 2018

Perché serve una soluzione ad hoc per salvare la «Paranza»

L’esperienza de "La Paranza" è da valorizzare, può essere un modello per tanti altri beni archeologici. Con la Curia una soluzione è possibile.

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Davvero emblematica delle energie e delle potenzialità presenti nel Mezzogiorno è la vicenda della cooperativa la Paranza di Napoli: delle energie, perché i giovani del Rione Sanità si sono resi protagonisti della riqualificazione e messa a disposizione dei cittadini e dei turisti di un sito archeologico come le Catacombe di San Gennaro; delle potenzialità, perché se si riuscirà a individuare una soluzione alla controversia insorta in queste settimane con la Pontificia Commissione per l’Archeologia Sacra si potrà costruire un nuovo modello di gestione per molti dei beni – non solo ecclesiastici – che costituiscono lo straordinario patrimonio culturale di cui, da Nord a Sud, è dotato il nostro Paese.

La storia, come sanno bene i napoletani, comincia circa dieci anni fa quando il sito – che versava in una situazione di sostanziale abbandono e vedeva non più di 5-6 mila visitatori l’anno – viene rilevato tramite convenzione con le autorità ecclesiastiche da un gruppo di giovani del Rione, sostenuti dal Parroco Don Loffredo e da alcuni lungimiranti donatori (tra cui la Fondazione con il Sud e la Onlus Altranapoli).

Le Catacombe vengono così restaurate, dotate di un impianto di illuminazione finalmente adeguato e moderno e vengono messi a disposizione dei visitatori servizi di accompagnamento e guida nel sito di San Gennaro e in quello, vicino, delle Catacombe di San Gaudioso. Non solo, ma l’attività della cooperativa si estende poi a visite guidate nelle strade del quartiere, che trova così nel bene archeologico una occasione di valorizzazione complessiva, germe di una possibile futura operazione di rigenerazione urbana. Il numero di visitatori aumenta via via (siamo ormai a 150 mila l’anno) con un ritorno economico che, per la cooperativa, prende la forma di assunzioni a tempo indeterminato (a oggi 50 ragazzi e ragazze) nonché di attività di restauro, manutenzione e promozione delle Catacombe (ossia di un bene che riguarda noi tutti) e, per il quartiere, la forma di una crescente presenza turistica che contribuisce a rompere il ricatto delle attività illegali. E davvero non può sfuggire il significato di contrasto alla criminalità concretamente innescato dall’azione di questi giovani.

A fronte di questi passi avanti straordinari dal punto di vista culturale e sociale, l’iniziativa della Pontificia Commissione di chiedere il 50% degli incassi risulta decisamente infelice nel metodo e nel merito. Ma se si vuole uscire positivamente da quello che, non a caso, è stato definito un “pasticcio”, è bene tener conto di quello che è il punto di ragione su cui fa leva l’iniziativa della Commissione: l’esigenza di ricondurre a una regola generale e uguale per tutti l’affidamento in gestione dei beni del patrimonio artistico. Senonché ciò che l’esperienza della Paranza mette sotto gli occhi di tutti, e che mi auguro le autorità ecclesiastiche sappiano cogliere, è il fatto che le regole oggi normalmente applicate negli altri siti non consentono proprio il recupero e la valorizzazione dei beni culturali: le Catacombe di San Gennaro e di San Gaudioso sarebbero ancora oggi abbandonate a loro stesse se fosse stata applicata la fatidica regola del 50%!

Il problema che sta allora di fronte alla Pontificia Commissione, nel confronto che sembra essersi aperto in questi giorni, è quello di individuare una nuova regola che sia coerente con lo spirito che anima l’esperienza della Paranza e possa poi diventare regola più generale di affidamento di beni artistici. Per esempio, rinunciando alla royalty del 50% e prevedendo invece – proprio sulla base dell’esperienza della Paranza – l’obbligo di reinvestimento in attività di restauro, manutenzione, promozione e sviluppo, dei proventi che eccedono la copertura dei costi correnti ed eventualmente un limitato canone fisso di concessione da ricomprendere nel biglietto. Con la consapevolezza che, opportunamente disciplinate, le attività di contorno (libreria, caffetteria, ristorazione, ecc.) promuovono la stessa fruizione culturale del sito.

Una simile soluzione costituirebbe un esempio anche per l’affidamento di beni artistici di proprietà pubblica, che potrebbero così diventare leva per iniziative imprenditoriali di giovani che vogliano impegnarsi nella valorizzazione e promozione del nostro straordinario patrimonio artistico: insomma, se mi è concesso un po’ di latino (che in fondo non guasta in una vicenda che coinvolge la Chiesa), ex malo bonum. Anche di questo spero proprio che potremo essere grati ai giovani del Rione Sanità.

Articolo del 18 novembre 2018 per il Corriere del Mezzogiorno

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