Interventi
24 February 2019

Perché la decrescita infelice sta diventando un’amara realtà

Decrescita infelice, da mesta teoria a rischio reale. Lo dicono gli ultimi dati Istat. E sarà il Mezzogiorno a pagare il prezzo più salato.

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L’Italia nel vicolo cieco costruito dalle politiche di un Governo irresponsabilmente miope: questo ci dicono gli ultimi dati Istat su produzione e domanda nel nostro Paese. E, come sappiamo fin troppo bene dall’esperienza, se non si cambia al più presto direzione è il Mezzogiorno che pagherà il prezzo più salato.

Cosa sta succedendo? Certamente gioca un ruolo il rallentamento della congiuntura internazionale, scossa dal revival protezionistico dell’amministrazione americana e più in generale dalle incertezze generate dalla sua politica estera, nonché dalle possibili conseguenze di una eventuale no-deal Brexit. Ma la caduta di domanda e produzione in Italia è talmente più accentuata rispetto al rallentamento estero che rinvia inevitabilmente a determinanti interne.

Il fatto è che, proprio nel momento in cui il sovranismo americano e inglese introducevano elementi di destabilizzazione del quadro internazionale, il nostro Governo ha collocato l’Italia in una posizione di estrema debolezza, isolandola dal concerto europeo, bloccando con argomentazioni speciose infrastrutture decisive per il suo sviluppo e impostando una politica di bilancio miope, basata sul taglio degli strumenti di crescita introdotti negli ultimi anni, per fare spazio invece a politiche assistenzialistiche di cortissimo respiro. E’ stata così compromessa la sostenibilità della finanza pubblica, con effetti pesanti non solo sull’onere fiscale che i cittadini italiani dovranno sopportare nei prossimi anni ma, da subito, sulle condizioni di finanziamento per le imprese.

Le rilevazioni sul settore industriale sono inequivocabili: il dato sul fatturato – riduzione del 3,5% su novembre e di oltre il 7% sul dicembre dell’anno prima – rivela che è in accelerazione la caduta dell’attività produttiva iniziata subito dopo l’estate; gli ordinativi fanno registrare una riduzione di quasi il 2% su novembre e di oltre il 5% su base annua. In sintesi, la produzione scende pesantemente e non ci sono prospettive di domanda – questo il senso del calo degli ordinativi – che facciano sperare in un recupero nei prossimi mesi.

La caduta riguarda tutti i comparti dell’industria, ma soprattutto le imprese che producono beni strumentali (oltre il 5% su novembre e oltre l’11% sull’anno prima), a conferma che la componente della domanda che negli ultimi mesi ha innestato la marcia indietro più pesante è proprio quella per beni di investimento: una vera e propria crisi di fiducia nelle prospettive dell’economia italiana che sta vanificando la ripresa di questi ultimi anni e sta bloccando la formazione della capacità produttiva necessaria a sostenere la crescita futura del Paese.

A fare le spese di questa politica è tutta l’Italia, del lavoro e della produzione, e in modo particolare proprio il Mezzogiorno. Non si tratta solo della considerazione generale della maggior fragilità dell’economia meridionale e quindi del fatto che è la più esposta alle conseguenze di una caduta dell’attività produttiva e alla contrazione del credito e dei flussi di capitale. Ma della gelata che sta già colpendo i comparti entro cui operano le imprese che in questi anni hanno costituito il nerbo della ripresa economica del Sud: mi riferisco in particolare a mezzi di trasporto, agroalimentare e farmaceutica, parte rilevante dei cosiddetti 4A+Pharma, la punta di diamante dell’industria meridionale evidenziata nelle analisi di SRM (Studi e Ricerche per il Mezzogiorno).

Una gelata che sarà acuita dal ridimensionamento operato dal Governo sulla strumentazione costruita in questi anni per lo sviluppo del Sud: le risorse a disposizione del credito d’imposta per gli investimenti delle imprese nel Meridione sono state tagliate, il cofinanziamento dei fondi strutturali europei è stato ridotto per il 2019 di 850 milioni e la disponibilità di cassa del Fondo sviluppo e coesione nazionale di 800 milioni. Del resto, i Patti per il Sud sono entrati in un cono d’ombra (l’ultima presentazione pubblica dello stato di avanzamento risale al gennaio 2018), mentre per le Zone economiche speciali – ferme ancora alle due (Campania e Calabria) istituite dal Governo precedente – invece di attuare interventi concreti si è pensato bene di convocare mercoledì scorso un incontro, diciamo così, ricognitivo.

I nodi di una simile gestione della politica economica verranno presto al pettine, con i danni che essa sta producendo, anche se il Governo cerca affannosamente di rinviare a dopo le elezioni europee l’inevitabile redde rationem. Intanto il Paese corre seriamente il rischio che la decrescita infelice da mesta e deprimente teorizzazione diventi dolorosa realtà.

Articolo del 24 febbraio 2019 per il Corriere del Mezzogiorno

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