Interventi
29 November 2020

L’alchimia tra campione e popolo. Quando il sogno diventa riscatto.

L’affetto, la passione, il pianto che abbiamo visto circondare il ricordo di Diego Armando Maradona a Napoli, come in Argentina, hanno un significato che non tocca solo quanti vivono direttamente quei sentimenti ma parla alla testa e al cuore di tutti. Quello cui abbiamo assistito è il riconoscersi di un popolo nelle gesta di un

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L’affetto, la passione, il pianto che abbiamo visto circondare il ricordo di Diego Armando Maradona a Napoli, come in Argentina, hanno un significato che non tocca solo quanti vivono direttamente quei sentimenti ma parla alla testa e al cuore di tutti. Quello cui abbiamo assistito è il riconoscersi di un popolo nelle gesta di un campione dello sport, diventate parabola che ha toccato corde profonde nell’animo di tanti: è qualcosa che chiede grande rispetto e condivisione da parte di ognuno di noi, anche di coloro che, come me, non sono direttamente coinvolti. Ed è qualcosa che spiega anche come sia possibile vengano messi in parentesi gli aspetti purtroppo controversi e dolorosi di un’esperienza umana fuori del comune come quella di Maradona.

Quella singolare risonanza tra le gesta di un campione o di una squadra e i sentimenti del suo pubblico molti di noi l’hanno vissuta in altre situazioni, forse – ma non sempre – più lineari e meno contraddittorie, in ogni caso sempre cariche di significati umani. Di quelle che ho vissuto in prima persona mi piace oggi ricordarne due, che hanno a che fare con gli sport che più avvincono, per motivi diversi, l’animo popolare: calcio e ciclismo.

Cosa non fu la notte dell’11 luglio 1982 al Santiago Bernabeu, quando l’Italia vinse i mondiali di Spagna contro la Germania! Cosa non fu vedere Paolo Rossi segnare il primo goal sgusciando tra i giganteschi difensori tedeschi, e l’urlo di Marco Tardelli e il contropiede lanciato da Bruno Conti e coronato da “Spillo” Altobelli! Un’emozione profonda prese me come tanti altri italiani quella notte: messi di fronte ad avversari ben più dotati dal punto di vista atletico, i nostri giocatori, meno alti e imponenti, si dimostrarono superiori nell’intelligenza del gioco, nell’inventiva delle azioni, nell’intuito affilato del goal. 

E così ci riconoscemmo, commossi, nella nostra squadra, nei nostri calciatori: rappresentavano veramente tutti noi, con i nostri limiti e le nostre virtù, tante volte sconfitti e tante volte risorti, erano figli dell’Italia malata di autocritica al limite del masochismo e al tempo stesso capace di realizzazioni straordinarie. L’aveva anticipato tanti anni prima il triestino Umberto Saba, quando a proposito degli undici in campo scriveva: “sputati dalla terra natia, da tutto un popolo amati”, “pochi momenti come questo belli, a quanti l’odio consuma e l’amore, è dato, sotto il cielo, di vedere”.

Se il calcio è fantasia di squadra e, a volte come con Maradona, tocco geniale di artista, il ciclismo è epica allo stato puro, sacrificio e fatica dura della strada, imprese che si raccontano come nei poemi omerici. Come quella di Marco Pantani sul Galibier il 27 luglio 1998, quando con uno di quei suoi scatti secchi si allontanò in solitaria diventando improvvisamente leggero sui pedali nonostante la pioggia e il vento dell’alta quota: quasi 50 chilometri di fuga fino alla salita finale delle Deux Alpes lo portarono alla conquista del Tour de France. Come non riconoscersi in quell’italiano magro come un chiodo che vinceva la più difficile corsa a tappe dopo aver subito nella sua vita ben tre gravi incidenti ed essersi dovuto ricostruire nel fisico e nell’animo? 

Ma onore anche a Jan Ullrich, l’avversario piegato in quella terribile giornata, che percorreva con il cuore in gola e le gambe doloranti la stessa strada su cui Pantani aveva volteggiato poco prima. Perché il ciclismo è anche questo: rispetto per la fatica di tutti, vincitori e vinti. E’ davvero “tutto un complesso di cose”, come dice Paolo Conte per Bartali, che fa sì che ogni uomo sui pedali racconti qualcosa di noi. 

Perciò, cari amici napoletani, anche chi come me non era un tifoso di Maradona può ben condividere i vostri sentimenti: proprio lui, cresciuto povero tra i poveri in una “terra natia” tanto difficile come può esserlo la periferia di una metropoli sudamericana, diventa El Pibe de Oro, il ragazzo che trascina al successo la squadra in cui gioca, e diventa così “da tutto un popolo amato” perché rappresenta il desiderio acuto del riscatto. 

Questo non significa dimenticare i suoi errori, ed è bene anzi saperli guardare per quello che erano: solo così la sua arte straordinaria sul campo di calcio resterà intatta nei nostri occhi senza ombre che possano annebbiarla. E noi potremo rivolgergli con animo serenamente triste il saluto estremo dei latini: “ave atque vale” Diego.  

Articolo del 29 novembre 2020 per il Corriere del Mezzogiorno

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